Con i fondi del Next Generation Eu si può ridisegnare l’Italia. Ma bisogna mettere al centro le persone, le imprese e i territori. E abbandonare le vecchie ricette
DAL MENSILE – L’Italia al lavoro sul Recovery plan, ovvero il piano di investimenti e riforme che il governo intende realizzare con i 209 miliardi in arrivo dal programma “Next generation Eu”, è un laboratorio pieno di idee. Sono tante le progettualità strategiche finora individuate verso cui far convergere i fondi messi in circolo dalla Commissione europea per la transizione ecologica dei processi industriali, la trasformazione digitale e la coesione sociale nei Paesi membri messi alle strette dalla pandemia Covid-19. Scelte sulla carta virtuose, che però in queste prime settimane di confronto sulla redazione del Piano nazionale di rilancio e resilienza si sono scontrate con una serie di ostacoli di carattere non solo programmatico ma anche culturale. Di fronte all’indicazione di proiettare sul decennio 2020-2030 l’uso di questi soldi, una parte influente e conservativa del Paese continua infatti a opporre una visione di sviluppo arroccata sul sostegno alle fonti fossili e sulla costruzione di nuove grandi opere, quando invece l’Europa chiede l’esatto contrario.
Le proposte di Legambiente e Fdd
Un appello affinché questi interessi non prevalgano quando, il prossimo aprile, l’Italia avrà definito il suo Recovery plan, arriva da Legambiente e dal Forum disuguaglianze e diversità (Fdd), che insieme hanno individuato dieci sfide green per cambiare realmente il futuro del nostro Paese. Fra i punti cardine di questa proposta, di cui si è discusso nel corso di un webinar organizzato dall’associazione ambientalista e dal Fdd lo scorso 29 settembre e trasmesso sul nostro sito e sulla nostra pagina Facebook, vi sono la realizzazione di nuovi impianti eolici offshore e solari a terra in aree dismesse, il dimezzamento dei consumi energetici del patrimonio edilizio pubblico e privato, un’accelerazione della transizione industriale green, un rafforzamento delle filiere territoriali dell’economia circolare. E, ancora, la riduzione del gap nell’accesso alla mobilità sostenibile fra i territori e nelle periferie così come dei ritardi e dei divari digitali, la rigenerazione delle aree urbane, la messa in sicurezza dei territori contro il dissesto idrogeologico e gli effetti dei cambiamenti climatici, il rafforzamento del modello agroecologico.
«Queste scelte green possono contribuire a definire il percorso di rilancio del Paese, non solo per le risorse che potranno mobilitare, circa 90 miliardi di euro complessivamente, ma soprattutto perché possono diventare una leva di innovazione dell’economia e di rigenerazione e rilancio dei territori – sostiene Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente – Sono scelte che serviranno per dare risposta alle tre grandi questioni poste dalla crisi e dalla transizione energetica: le persone, per diminuire le distanze fra chi può investire nell’efficientamento energetico della propria casa o in un’auto elettrica e chi, invece, ha visto peggiorare le proprie condizioni di vita; le imprese e il lavoro, per creare nuova occupazione di qualità attraverso soluzioni green; i territori e gli enti locali, che vanno coinvolti di più dal governo centrale dopo anni di abbandono». Affinché questi obiettivi siano raggiungibili è però necessario rendere il più possibile condiviso e partecipato il percorso che condurrà alla bozza definitiva del Recovery plan. «Non un piano calato sui territori dall’alto dopo essere stato partorito nelle stanze di Palazzo Chigi e del ministero dell’Economia, ma un disegno costruito con il Paese e nel Paese, con il contributo della società civile e del mondo imprenditoriale», precisa Zanchini.
19 miliardi da cancellare
È un monito che il governo intende raccogliere, come confermato nel corso del webinar dal viceministro dell’Economia Antonio Misiani, secondo il quale in questo processo un valore aggiunto sarà il saper «cogliere le finestre che offre la situazione di congiuntura economica» causata dall’emergenza sanitaria. «I prezzi in calo dei combustibili fossili e dell’energia – spiega Misiani – sono un’opportunità per intervenire in modo deciso sulla riduzione progressiva dei sussidi ambientalmente dannosi, vale a dire quei 19 miliardi di euro che il nostro Paese spende e che ci siamo impegnati a livello europeo a ridurre progressivamente. Abbiamo tutte le carte in regola per essere, in Europa, il Paese guida nella transizione ecologica e verso l’economia circolare».
Quella del governo è un’ambizione più che giusta, che nei prossimi mesi dovrà però essere alimentata da scelte coerenti con le indicazioni della Commissione europea e, in parallelo, da riforme che mettano le imprese nelle condizioni di essere realmente protagoniste di questo nuovo corso. Tradotto, significa da una parte respingere al mittente la logica dello “svuota cassetti”, vale a dire la riesumazione di progetti obsoleti che sono stati rispolverati alla notizia dell’arrivo di nuovi fondi dall’Ue; dall’altra, fare uno scatto in avanti rispetto all’ultimo dl “Semplificazioni”, alleggerendo gli iter autorizzativi per la realizzazione di nuovi impianti, sia per il trattamento dei rifiuti che per lo sfruttamento di fonti rinnovabili, in aree dismesse o bonificate e risolvendo le resistenze delle comunità locali attraverso il confronto e il dialogo. «Siamo nella situazione paradossale in cui nelle aste per la realizzazione di nuovi impianti eolici o solari ci sono meno candidati rispetto ai megawatt che si potrebbero generare, e questo per le difficoltà e i vincoli insiti negli iter autorizzativi la cui durata media è di circa cinque anni», racconta Luca Bettonte, ad di Erg e fra i vicepresidenti di Elettricità Futura. «Questi processi devono essere snelliti in modo da identificare più velocemente i territori dove installare la nuova capacità produttiva sia eolica che solare, qualificando aree industriali in parte dismesse o terreni agricoli inutilizzati, puntando sulle tecnologie di ultima generazione. Circa metà del parco eolico italiano potrebbe essere oggetto di repowering, e questo libererebbe investimenti fino a otto miliardi di euro, specie nel Sud Italia».
Le ricadute sui territori
Altro nodo che dovrà essere sciolto in questi mesi è stabilire come “mettere a terra” queste progettualità, in un modo che sia il più equilibrato e organico possibile. «Da parte delle Regioni servirà uno sforzo strategico – commenta in proposito Elly Schlein, vicepresidente della Regione Emilia-Romagna e in passato europarlamentare – Il problema che scontiamo maggiormente è infrastrutturale. Occorre rafforzare anzitutto l’elettrificazione delle linee ferroviarie, provando a rendere conveniente il trasporto su ferro delle merci per abbattere l’inquinamento dell’aria derivato dal trasporto su gomma. Bisogna risolvere i divari territoriali, aumentare i servizi di prossimità per le aree più periferiche, insistere sull’efficientamento energetico delle strutture pubbliche e private e sulle comunità energetiche. Bisogna puntare sulla formazione a partire dai nidi, allontanando i rischi di dispersione scolastica e povertà educativa, aiutando le donne su cui cade in modo diseguale il carico di cura dei piccoli. Ci sono le case popolari da costruire nei terreni in disuso e, soprattutto, la messa in sicurezza dei territori per fare prevenzione rispetto agli effetti degli eventi climatici estremi».
Questo Recovery plan è dunque l’occasione imperdibile per accorciare le distanze fra l’Italia che vuole riprendere a correre e quella che invece, se non adeguatamente sostenuta, rischia di rimanere ancora più indietro. Ma è al contempo la prova da non fallire per lasciarsi alle spalle la pioggia di fondi caduta in passato da Bruxelles sull’Italia, e che spesso ha finito per generare soluzioni a metà e opere incompiute. «Questi non sono fondi che devono far fronte solo all’emergenza, ma devono aumentare il nostro grado di resilienza e resistenza alle possibili crisi del domani – avverte Rossella Muroni, vicepresidente della commissione Ambiente della Camera – Nel perseguire questo obiettivo dobbiamo ripensare il concetto di infrastruttura strategica: opere che non devono avere solo una fattibilità e un’utilità territoriale, ma anche essere in grado di avere ricadute sociali e occupazionali sulle comunità, garantendo maggiore qualità ambientale e più benessere dei cittadini». È questa la sfida da vincere per il futuro del nostro Paese.
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Rocco Bellantone