Transizione verso le rinnovabili, ottimizzazione della differenziata e riduzione degli spandimenti fuori legge. Sono i vantaggi degli impianti a biometano
Dal mensile di gennaio – Il biometano, la nuova frontiera degli impianti di trattamento di rifiuti urbani e scarti della produzione agroalimentare, è al centro dello sviluppo dell’economia circolare anche se qualcuno solleva ancora dubbi. In Emilia-Romagna – regione che annovera il maggior numero di impianti sul territorio nazionale (6 di biometano e 252 di biogas) – la sperimentazione avviata nel 2018, da quando è in vigore la normativa sul biometano, ha dato buoni responsi e ora multiutility, aziende private e Comuni stanno investendo in nuovi impianti, con modalità e finalità diverse, talora anche immaginifiche. Un po’ di chiarezza: il biometano è un metano (CH4) che non proviene da fonti fossili ma da un processo di trasformazione della materia organica tramite digestione anaerobica, cioè priva di ossigeno. Il rifiuto immesso nel digestore “matura” in un paio di mesi e si degrada in parte solida, che diviene compost, e in gas, incanalato in un impianto apposito. Qui si effettua il cosiddetto upgrading, ossia il processo di raffinazione attraverso il quale si rimuove l’anidride carbonica (CO2) dal biogas, ottenendo così il biometano, che può essere immesso in rete per consumi domestici o per i trasporti.
Un ciclo da chiudere
Il mega progetto su cui sono rivolte molte attese, anche a livello nazionale, per le implicazioni istituzionali ed economiche nella filiera dei rifiuti, è quello di Iren alla Gavassa, località alle porte di Reggio Emilia. La svolta giuridica l’ha data il Tar di Parma a inizio settembre, respingendo il ricorso del comitato Ambiente e salute, formato da agricoltori e residenti, contro il percorso autorizzativo dell’impianto. Al momento sono in corso i sondaggi del terreno, a ottobre è stato rinvenuto e fatto brillare un ordigno bellico, e fra due anni, se non ci saranno intoppi, entrerà in funzione un impianto in grado di trattare 100.000 tonnellate annue di forsu (frazione organica rifiuti solidi urbani). In pratica, tutti i rifiuti umidi delle case di Reggio Emilia e Parma, più 67.000 tonnellate di frazione verde, potature e sfalci. Ne usciranno 53.000 tonnellate di compost e 9 milioni di metri cubi di biometano da immettere in rete L’apripista nel settore è stata due anni fa Aimag, multiservizi pubblica della bassa modenese: andato a regime il digestore con annesso biometano situato a Finale Emilia (3 milioni di m3 prodotti da 50.000 tonnellate di forsu), ora sta per aprire un impianto simile a Fossoli, vicino Carpi, dove c’è già un digestore con biogas. Gli altri impianti in funzione sono a Sarmato (Pc) di Maserati Energia, a Sant’Agata Bolognese di Hera, a Faenza (vedi sotto), a Roncocesi (Re) e Ravenna. Questi ultimi due, sperimentali, hanno rappresentato il fulcro di Biomether, progetto Life della Regione Emilia-Romagna. «La nostra battaglia è servita – sostiene il coordinatore Stefano Valentini – Abbiamo dato un impulso quando ancora non c’era neanche la normativa e i gestori energetici non vedevano di buon occhio altri carburanti. Il progetto Biomether si è concluso un anno fa ma stiamo ancora testando, con Enea, gli effetti su due vetture Volkswagen alimentate solo a biometano proveniente da fanghi di depurazione, che potrebbe lasciare qualche impurità. Finora non vi sono stati problemi. Faremo un tagliando a 20.000 km». Analogamente, a Ravenna sta viaggiando un autobus alimentato a biometano proveniente da discarica. «Trattiamo un gas ancora peggiore – specifica Valentini – che comporta due step di purificazione: oltre alla CO2 va tolto l’azoto».
“Il biometano può rispondere a tre problemi centrali: la rapida transizione verso le energie rinnovabili, la chiusura del cerchio della raccolta differenziata dell’organico e può fare da camera di compensazione alla produzione di liquami zootecnici” – Lorenzo Frattini
Ma le novità non si fermano qui. Un impianto privato di biometano, entrato in funzione a settembre, è stato realizzato dell’azienda agricola Leona a Codigoro (Fe), che già dal 2012 ha attivo un ulteriore impianto biogas da 1 Mw. Il nuovo impianto di biometano, fra i primissimi nel settore agricolo, viene alimentato da insilato di triticale, reflui zootecnici e in quota prevalente da paglia, tramite un trattamento inedito in Italia noto come steam explosion. Vengono prodotti e immessi nella rete 350 m3 /h di biometano, classificato come “avanzato” e destinato all’autotrazione, come previsto e incentivato dal decreto sui biocarburanti. Un progetto ancora allo stadio iniziale è quello avviato a Montechiarugolo (Pr) per un impianto di proprietà comunale che raccolga i reflui zootecnici e gli scarti delle aziende agroalimentari della zona. «I nitrati nelle falde acquifere sono in aumento e ormai l’ottica dell’agricoltura è industriale, per questo motivo – spiega Maurizio Olivieri, assessore all’Ambiente del Comune in provincia di Parma – abbiamo pensato di realizzare, accanto al nuovo depuratore, un impianto che possa raccogliere i reflui zootecnici della zona, altri scarti agroalimentari, fra cui quelli dell’industria del pomodoro, e processarli in biometano o metano liquido per l’autotrazione. I piani di spandimento ci dicono che nel nostro territorio si producono 150.000 tonnellate di liquami. Dall’impianto uscirebbe un ottimo concime organico, in forma semiliquida o di pellet, per 16.000 tonnellate e una produzione di 2,9 milioni di metri cubi di biometano. Chiuderemmo il ciclo. Ora abbiamo vinto un bando regionale per l’economia circolare che ci permette di confezionare bando e progetto. L’investimento per realizzarlo è di 9 milioni di euro, che si ripagano in sei-sette anni. Vedremo se ci saranno privati interessati».
Nodi sciolti
Sugli impianti di biogas però non tutti sono convinti. «I digestori anaerobici favoriscono la proliferazione di clostridi, batteri nocivi per la formazione del formaggio parmigiano-reggiano», denuncia Nicola Bertinelli, presidente del Consorzio del parmigiano-reggiano. La stessa preoccupazione era alla base del ricorso degli agricoltori contro l’impianto Iren della Gavassa. «Non c’è nulla da temere – risponde Sergio Piccinini, responsabile settore ambiente del Centro ricerche produzioni animali (Crpa) – I clostridi sono batteri essenziali alla vita del nostro organismo, ce ne sono dappertutto. Tuttavia nel formaggio stagionato fermentano e inducono uno scadimento della qualità: il problema si pone solo per il parmigiano-reggiano che è prodotto senza conservanti. Proprio noi dicemmo, nel 2009, che potevano esserci problemi, ma dopo dieci anni di ricerche in laboratorio e sul campo abbiamo constatato che a valle degli impianti biogas non c’è un aumento statisticamente significativo della carica microbica. Il processo anaerobico di trattamento di liquami e scarti non aumenta ma mantiene inalterato il numero di clostridi». Per Lorenzo Frattini, presidente di Legambiente Emilia-Romagna, «la tecnologia del biometano può rispondere a tre problemi oggi centrali in regione: la rapida transizione verso le energie rinnovabili, la chiusura del cerchio della raccolta differenziata dell’organico, in forte crescita, e infine può fare da camera di compensazione alla produzione di liquami zootecnici, riducendo il rischio di spandimenti fuori legge. Non può dunque esserci un pregiudizio a priori contro la tecnologia. Qualche amico – continua Frattini – teme che il biometano possa ritardare il passaggio alla mobilità elettrica ma si tratta di un falso problema perché noi dobbiamo agire oggi e sappiamo che sui grossi motori, come bus, navi e trattori, l’elettrico si affermerà con maggior lentezza». Proprio in queste settimane la Regione ha annunciato l’acquisto di bus a metano, che rimarranno in servizio per 10-15 anni: «Meglio convertirli subito al combustibile verde – riprende il presidente di Legambiente Emilia-Romagna – Certamente gli impianti non possono andare bene ovunque e noi siamo stati i primi a mandare alla Regione, nel 2018, una proposta di regolamentazione. Abbiamo visitato anche gli impianti, senza rilevare odori nelle vicinanze».
Vino a emissioni zero
Nell’impianto di Faenza conferiscono 29 cantine sociali del territorio
Fra gli impianti di punta del biometano c’è quello inaugurato a giugno 2019 da Caviro Extra, a Faenza, con una potenzialità produttiva di 12 milioni di Nmc (normal metri cubi) all’anno di biometano per automazione. Accoglie in entrata fino a 560.000 tonnellate di vinacce, fecce, potature, reflui e scarti agroalimentari, trasformati in quattro linee di prodotto: alcoli, acido tartarico, mosti ed estratti d’uva e, da ultimo, una business unit eco-energia con 180.000 tonnellate di compost, energia elettrica, energia termica e, appunto, biometano. «La nostra filosofia – spiega Fabio Baldazzi, direttore generale di Caviro Extra – è quella che ci è stata trasmessa dai padri fondatori di Caviro negli anni ’60 e che deriva dal mondo contadino, dove non si buttava via nulla e si trovava il modo di utilizzare tutto. Il core business è il vino, in tutti i suoi segmenti: da noi conferiscono 29 cantine sociali che contano 12.800 famiglie di viticoltori. Ma dai nostri soci riceviamo anche i sottoprodotti dell’uva per ricavare valore anche da quelli, chiudendo il ciclo di questa economia circolare: meno dell’1% va in discarica». Il percorso virtuoso si riflette anche sui conti: il gruppo cooperativo Caviro ha un giro d’affari di 370 milioni di euro, l’apporto di Caviro Extra è di 120 milioni, di cui il 15% dal settore eco-energia. Un settore per il cui sviluppo sono stati investiti 100 milioni dal 2010. L’ultima novità è l’infustamento dell’anidride carbonica separata nella purificazione del biogas per produrre metano: la CO2 viene raffreddata a -40 °C e destinata alla refrigerazione di sistemi industriali, in partnership con Sico. «Questo ci permette addirittura di avere un saldo negativo nelle emissioni», conclude Baldazzi.
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Francesco Dradi