Livio de Santoli, Prorettore dell’Università di Roma “La Sapienza” per le Politiche Energetiche e docente della stessa, è, dal 20 novembre, il nuovo presidente del Coordinamento Free, eletto all’unanimità. Gli abbiamo chiesto, a caldo poche ore dopo l’elezione, quali saranno le direttrici del Coordinamento Free nei prossimi anni e soprattutto quali sono i limiti, e i pregi, dell’Italia di fronte ai nuovi scenari energetici.
Il coordinamento FREE è un’associazione di associazioni. Ma serve sul serio un’associazione di questo tipo per le rinnovabili?
«Si, secondo me sì, perché esiste un problema per le associazioni che più o meno insistono sulla stessa lunghezza d’onda. Soprattutto se rappresentano tecnologie diverse. Quello di non agire sempre in maniera condivisa ed unitaria e quindi sinergica, ma viceversa può capitare che siano fatte delle azioni in competizione tra loro. In questo quadro un’associazione di associazioni, ossia una federazione, ha il compito di agevolare l’agire condiviso, dando così più forza alla causa comune, in questo caso delle rinnovabili e dell’efficienza energetica. In questi anni il Coordinamento Free ha avuto proprio questo ruolo, evitando che ci fossero azioni scomposte che invece di promuovere e perseguire un assetto generale sfociassero nel contrasto reciproco, anche se involontario. Free in questo quadro si è fatto carico d’aggiustare il senso delle proposte in modo che fossero a vantaggio di tutti. Del resto non è possibile fare altrimenti visto che gli obiettivi europei in termini di rinnovabili e di efficienza energetica sono talmente sfidanti, complessi e difficili da realizzare, che solo con un quadro coordinato è possibile raggiungerli».
Lei ha parlato degli obiettivi europei. L’Italia ha presentato un Pniec che a voler essere bravi si può definire deludente. Il Coordinamento FREE sotto la sua gestione incalzerà il quadro politico italiano che sembra abbastanza refrattario anche solo a metter mano a questo capitolo?
«Il Pniec deve essere assolutamente aggiornato e ciò a voler essere moderati perché in realtà ci sono delle situazioni che vanno completamente riviste anche e specialmente per il fatto che l’Unione Europea ha recentemente innalzato gli obbiettivi sulle emissioni. Il nostro Pniec era molto cauto già con gli obiettivi precedenti, figuriamoci con quelli rilanciati recentemente dalla Commissione. Secondo me il Coordinamento FREE deve puntare in alto e pungolare le istituzioni affinché abbiano più coraggio e convinzione sul tema della decarbonizzazione, al di la di slogan e frasi fatte. Sotto questo profilo io mi impegnerò, e penso di poter parlare a nome di tutto il Coordinamento FREE per incalzare in maniera positiva e costruttiva tutta la politica, a cominciare dal ministro che ci è più vicino, senza dimenticare il fatto che l’aspetto energetico in tempi di cambiamenti climatici e rinnovabili è trasversale e coinvolge praticamente tutti i ministeri e ognuno deve fare la propria parte».
Nel concreto cosa farete?
«Più che cosa faremo, vorrei dire che cosa continueremo a fare. Abbiamo realizzato, tra l’altro, un documento sulla semplificazione legislativa, che ricordo è a costo zero per lo Stato ed è molto positiva per le imprese, nel quale abbiamo messo nero su bianco soluzioni operative, concrete, immediate. Ebbene dobbiamo ancora ricevere risposte puntuali su gran parte di quelle proposte. La politica da tempo sulle questioni energetiche parla in maniera generica di semplificazioni e di trasparenza, ma poi concretamente non si fa nulla, Il ruolo del Coordinamento FREE è e sarà sempre di più quello di avanzare proposte, aggiornarle perché il quadro di riferimento cambia continuamene, e riproporle fino all’esasperazione perché solo così possiamo pensare di riuscire a ottenere dei risultati concreti. La forza del Coordinamento FREE, secondo me è questa. Quella di riuscire a dare voce alle proposte delle diverse associazioni ed “incalzare” su rinnovabili e clima tutta la politica».
Parliamo di politica industriale. L’Italia non ha mai brillato per politica industriale al punto che anche in tempi recenti alcuni gioielli industriali sono stati oggetto di shopping da parte di compagnie straniere. Come si può impostare una politica industriale che difenda l’italianità, e quindi porzioni di Pil nazionale, delle eccellenze che possediamo nel settore delle rinnovabili e dell’efficienza energetica?
«Oggi abbiamo una grande occasione. Siamo in un momento storico, all’inizio del decennio cruciale per il clima, nel quale in Italia possiamo scegliere se essere all’avanguardia su rinnovabili ed efficienza energetica, per non parlare dell’idrogeno, oppure se essere il fanalino di coda dell’Europa e continuare ad essere assoggettati a import esteri. E la scelta tra queste due opzioni le faranno le politiche industriali che saranno prese nei prossimi anni. Questi anni. L’Unione Europea, per esempio, ha dato la scadenza per la progettualità relativa all’idrogeno al 2024, fissando i traguardi al 2030. Il 2024 è dietro l’angolo e ciò è indice della velocità a cui si deve andare. L’Italia invece, per ora, esprime blande linee guida sull’idrogeno senza affrontare alcuni temi, quali quello del ruolo dell’industria italiana. Allora o non si hanno i riferimenti di una vera politica industriale, o peggio si vive in un periodo di stagnazione nel quale risulta impossibile fare delle proposte. Come Coordinamento FREE abbiamo il know how e le competenze perché, parlando di idrogeno ad esempio, ma il discorso vale per tutte le tecnologie, il 2024 sia già un tassello organico e costruttivo sulla strada della road map verso il 2030. Se non cogliamo ciò significa perdere una grande occasione di politica industriale.
Parliamo di un’altra questione. In Italia praticamente ogni impianto di qualsiasi tipo delle rinnovabili, dal fotovoltaico a terra a quello sui tetti, dall’eolico alla geotermia, per non parlare del biogas subisce la sindrome Nimby che si riflette poi sul sistema politico in maniera negativa. Come mai questo fenomeno e come possono gli operatori delle rinnovabili superare questo ostacolo di comunicazione verso la popolazione?
«Questo fenomeno è comunicativo come diceva giustamente lei, ma si tratta anche di un fenomeno che a mio avviso riflette una metodologia non corretta d’affrontare il cambiamento del paradigma energetico. Serve il coinvolgimento diretto degli individui perché le rinnovabili e l’efficienza energetica insistono in questo nuovo ruolo ad essi assegnato: essere prosumer. E la centralità dell’individuo in questo processo deve essere un fatto concreto, operativo. In questo quadro mi sono piaciute molto le proposte fatte sull’agrifotovoltaico dove le singole aziende agricole sono coinvolte nel business energetico. E la stessa cosa bisogna fare con le comunità dell’energia nelle quali il cittadino può e deve trovare dei vantaggi economici, cosa che consente anche di contrastare la povertà energetica, tema sul quale si discute molto ma con poche proposte concrete. Bisogna unire, sotto il cappello delle rinnovabili e dell’efficienza energetica, le istanze economiche e quelle sociali. In questa maniera si accorciano le distanze tra i cittadini e il settore energetico – distanze che ereditiamo dal fossile centralizzato – realizzando così due obiettivi. Il primo è quello di coinvolgere attivamente i cittadini nello sviluppo delle rinnovabili per il clima e il secondo di battere la sindrome Nimby».
Qual è la posta in gioco in questa complessa partita?
«È alta. Decisamente alta. Molti studi sociologici dimostrano che il collasso di molte società è partito dal settore energetico in crisi, mentre lo sviluppo delle stesse dipende dalla capacità di promuovere nuove forme d’energia. Siamo a un bivio. Da un lato sviluppo e innovazione, dall’altro declino, stasi, e difesa dei privilegi acquisiti. E la lotta alla burocrazia è la madre di tutte le battaglie per andare verso lo sviluppo e l’innovazione. Ed è, ripeto, una battaglia che può essere a costo zero per tutta la collettività. Teniamo conto che la burocrazia costa molto alla collettività, ben oltre l’aspetto esclusivamente economico. C’è anche un costo sociale e che non viene quantificato\, legato anche alle esternalità ambientali e sanitarie».
Per finire come vorrebbe che fosse il futuro dell’Italia, diciamo tra dieci anni?
«Vorrei che l’Italia fosse un paese nel quale sia stato possibile realizzare il vero spirito che anima il tema dello sviluppo sostenibile. Non si tratta di un obiettivo solo, per così dire, “culturale”, ma anche pragmatico, reale, concreto perché oggi sviluppo sostenibile vuol dire eliminare ogni forma di degrado, sia ambientale, sia sociale. Al 2030 m’immagino una società diversa che possa veramente accogliere con serenità le nuove generazioni, senza ansia e debiti. Se il debito economico che si sta profilando potrebbe anche essere cancellato, il debito verso la natura dovrà essere comunque saldato perché gli ecosistemi non sono un’astrazione e rappresentano il vero senso della vita dell’uomo. Bene, io spero che al 2030 il nostro Paese sia sulla giusta strada verso una sostenibilità così come definita dall’Agenda delle Nazioni Unite e mi impegnerò al massimo per dare un supporto affinché questa strada sia intrapresa».
(L’articolo è un’anticipazione di quanto pubblicato su QualEnergia n.5 del 2020)
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Sergio Ferraris