Clean industrial deal, perché è fondamentale difenderlo da deregulation e greenwashing

 Clean industrial deal, perché è fondamentale difenderlo da deregulation e greenwashing

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L’Ue rilancia le ambizioni verdi ma bisogna evitare scorciatoie per scavalcare i paletti posti a governi e imprese sulla finanza sostenibile. L’impegno dei consorzi per mantenere la barra dritta

Corporate sustainability reporting directive (Csrd), Corporate sustainability due diligence directive (Csddd), tassonomia ambientale. Sembrano termini e sigle “noiosi” e difficili da digerire. E invece sono le colonne del nuovo sistema di rendicontazione che l’Ue si è data per difendere il proprio Green deal da tentativi di greenwashing.

Ora che la Commissione Europea ha rilanciato le sue ambizioni su questo fronte con il Clean industrial deal, questi elementi portanti vanno ancor più preservati.

A segnalarlo è stata a maggio la Banca centrale europea che in un suo documento, intitolato “Different shades of green: Eu corporate disclosure rules and their effectiveness in limiting greenwashing”, ha rimarcato l’importanza dei paletti posti attraverso questi strumenti in previsione dell’avanzamento del “pacchetto Omnibus”, l’insieme di proposte legislative per snellire la burocrazia cui devono far fronte aziende e piccole e medie imprese alle prese con i nuovi obblighi sulla sostenibilità.

Gli oltre 100 miliardi di euro, che con il Clean industrial deal andranno a sostenere la produzione industriale pulita nell’Ue, rappresentano un’iniezione di liquidità fondamentale per accelerare la transizione energetica ed ecologica dell’Unione. L’impegno in questa fase deve essere quello di non smussare oltre il dovuto il piano di sviluppo industriale che è stato pensato, e con esso l’attuale normativa sulla finanza sostenibile.

«Non si ceda alle sirene della deregulation come invece sta purtroppo accadendo per il primo pacchetto Omnibus di semplificazione, riguardante la rendicontazione di sostenibilità delle imprese, del loro dovere di diligenza ai fini della sostenibilità e della tassonomia, ossia del regolamento sulla classificazione comune delle attività economiche sostenibili», avvertiva a fine febbraio il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani. Una preoccupazione che non si è affatto affievolita negli ultimi mesi, come dimostra il recente richiamo della Bce.

L’Italia che ricicla guarda comunque al nuovo corso con fiducia. Lo fa attraverso la sua rete di consorzi, che da anni perseguono la strada dell’economia circolare. «Nella gestione degli imballaggi abbiamo già superato gli obiettivi di riciclo chiesti entro il 2030 – spiega Ignazio Capuano, presidente del Conai, il consorzio nazionale imballaggi – Con l’entrata in vigore del nuovo Regolamento europeo il nostro impegno sarà ancora più strategico».

A realtà come questa serve un’Europa con le idee chiare: sulle regole del gioco da applicare e che vanno rispettate da tutti, così come sugli obiettivi da porsi. «Ma l’Europa non ha mai voluto fissare standard sulla raccolta degli oli minerali usati – osserva Riccardo Piunti, presidente del Conou, il consorzio nazionale degli oli minerali esausti – A Bruxelles si continua a far fatica ad affrontare di petto temi dirimenti come quello dei Pfas (sostanze perfluoroalchiliche, ndr) e invece viene dato troppo spazio ai lobbisti che curano gli interessi delle aziende che operano in questo settore».

La barra del Clean industrial deal va dunque tenuta dritta. Semplificare le normative non deve significare smontare pezzo dopo pezzo il nuovo impianto industriale su cui l’Unione intende costruire il proprio futuro. Non è il tempo di ripiegare su scorciatoie.

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Rocco Bellantone