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Dal mensile di novembre – Innovazione, obbligatorietà della rendicontazione non finanziaria, riscrittura della premialità per manager e una “Border carbon tax”. Così la nostra economia può competere nel mondo

di LEONARDO BECCHETTI

Il successo della transizione ecologica dipende dalle regole del gioco del sistema economico e dagli incentivi in campo. La partita fra imprese green e imprese del passato potrà essere vinta dalle prime (spingendo fra l’altro le seconde a riconvertirsi e diventare green) nel tempo più rapido possibile se in questa fase decisiva avvieremo progetti infrastrutturali, stimoleremo innovazioni, costruiremo incentivi che renderanno le stesse sempre più produttive e competitive. Ricordando che le imprese green non devono soltanto vincere il “Campionato” (la gara con le imprese non green e inquinanti di casa nostra) ma anche la “Champions league”, ovvero la partita con aziende localizzate in altri Paesi del mondo che giocano con il vantaggio di costi del lavoro, fiscali e ambientali inferiori ai nostri.

Per vincere questa partita abbiamo bisogno di alcune iniziative. La prima è stimolare l’innovazione necessaria per strutturare il nuovo paradigma dell’economia circolare, decisivo se vogliamo aumentare la capacità di creare valore in modo ambientalmente sostenibile. Per farlo, la via migliore non è costruire un grande carrozzone pubblico ma utilizzare risorse pubbliche per aumentare la scala di azione di realtà private già promettenti ed esistenti nel nostro Paese e svolgere assieme un’azione di catalizzatore: appalti precommerciali, gare per l’innovazione, partecipazioni in capitale di rischio nelle innovazioni più incoraggianti che attirano capitale privato, sostegno alle attività di incubazione, seed e start up.

Due riforme indispensabili delle regole del gioco sono l’obbligatorietà della rendicontazione non finanziaria, nella quale le aziende siano chiamate a misurarsi su alcuni indicatori chiave (emissioni inquinanti, CO2, circolarità dei prodotti, water footprint, quota di rinnovabili), e la riscrittura dei meccanismi di premialità di manager e forza lavoro. Meccanismi che non possono più fondarsi solo su dinamiche di profitti e prezzi azionari ma che devono includere indicatori ambientali e sociali. In parole povere, non possiamo dare un bonus a un manager che aumenta i profitti facendo crescere le emissioni o gli incidenti sul lavoro, ma dobbiamo farlo solo se crea valore economico in un quadro di sostenibilità ambientale e sociale. Importante sarà anche la creazione di fondi di garanzia e schemi di incentivo fiscale per le aziende che si certificano o realizzano investimenti in grado di migliorare significativamente il loro impatto ambientale. Gran parte del progresso nella transizione ecologica, infatti, avviene perché incorporato nella nuova frontiera di beni d’investimento tecnologicamente ed ecologicamente più avanzati. Premiare gli investimenti green è dunque uno stimolo molto importante.

Resta la questione fondamentale della competizione internazionale (la “Champions league”). Gli sforzi per la transizione ecologica giocati esclusivamente sul terreno nazionale rischiano di essere un boomerang se non sono accompagnati da un cambiamento delle regole del gioco a livello globale. Il rischio è quello del carbon leakage, della delocalizzazione, della perdita di aziende e posti di lavoro. Con imprese che vanno a produrre fuori dai confini europei per non pagare certificati verdi e poi fare dumping ambientale esportando prodotti a basso costo verso i nostri Paesi.

Per evitare ciò, bisogna realizzare quello che l’Europa ha promesso impegnandosi sul fronte del Recovery fund. Dobbiamo insistere per mettere a punto una Border carbon tax, secondo la quale i prodotti d’oltre frontiera che accedono ai nostri mercati vanno “radiografati” con metriche green e, se trovati sotto i nostri standard minimi, sottoposti a un’Iva maggiorata, che contribuirebbe ad alimentare la capacità impositiva comunitaria. Non è un dazio, perché i prodotti “cinesi” green non pagano nulla. È una sacrosanta battaglia per un commercio internazionale fondato non su ostilità nazionalistiche ma su principi di sostenibilità sociale e ambientale. Un bene pubblico globale di cui beneficiano tutti.

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